Essere sola
17.01.2015 09:27
Solitudine affettiva e solitudine sociale non sono due dimensioni indipendenti, come invece sostenevano i primi studi di psicologia sociale sul tema (Weiss, 1973).
Se è vero che tante frequentazioni sociali non bastano di per sé a saturare il nostro bisogno d’amore, è altrettanto vero che il senso di solitudine provocato dalla mancanza/perdita di un partner, o dalla morte di una persona cara, può essere almeno in parte attenuato dalla presenza di una rete di rapporti interpersonali affettivamente importanti, come appare dalle ricerche più recenti sulla “funzione ammortizzante” esercitata dal supporto sociale nel processo di adattamento alla perdita affettiva (Sandler et al., 2008)
Sentirsi “in divieto d’amore” ha certo poco a che fare col numero di persone che ci troviamo a frequentare superficialmente - per lavoro, doveri di famiglia, abitudine o necessità. Tuttavia, quanto più una persona è rimasta priva di un tessuto sociale di supporto (famiglia, amicizie, parentela), tanto più difficili da gestire saranno anche l’assenza di un partner, la fine di un amore, la separazione o il divorzio, la perdita dei genitori, ecc…
Una condizione obiettiva d’isolamento sociale non voluto – a seguito dello sradicamento dai propri luoghi d’origine, o per la difficoltà di instaurare con gli altri delle relazioni profonde, o ancora per il venir meno dei legami affettivi precedenti – spalanca inevitabilmente un “deserto interiore” che domanda disperatamente amore, per tornare a essere – o diventare - un giardino fiorito.
Mentre nell’adolescenza è soprattutto il gruppo (di amici/amiche) a facilitare il consolidarsi dell’identità in formazione, e nella prima giovinezza un buon cameratismo tra amici può ancora sostituire e/o compensare l’assenza del rapporto di coppia, in età adulta le cose cambiano. Intorno ai trent’anni (o poco oltre) il bisogno femminile d’amore tende a indirizzarsi quasi esclusivamente alla ricerca di un partner con cui dare avvio a una vita di coppia a lungo termine, spesso anche sotto la spinta del desiderio di mettere al mondo un figlio prima che l’orologio biologico renda difficoltosa, e infine impossibile, la maternità.
Salvo i casi di libera scelta di una vita da “single”, in questa fascia d’età così critica per la donna senza figli, nubile o separata che sia (dai trenta ai quaranta-cinquanta anni), la mancanza di un partner rischia spesso di diventare ossessione, facendo molte volte approdare a scelte affettive precipitose, più motivate dal bisogno di fuggire alla propria solitudine - o di fare un figlio, anche a costo di farlo con il primo che capita - che non per una scelta ponderata della persona con cui condividere il resto della propria vita.
Non diversamente avviene quando si spezza una coppia precedentemente costituitasi: nella rottura di un fidanzamento o di altra stabile relazione sentimentale (con o senza convivenza), ma ancor più nei vari casi di separazione coniugale. In questi ultimi è, infatti, più probabile che il matrimonio abbia determinato per i coniugi anche il costituirsi di una solida rete di relazioni sociali condivise, che la separazione della coppia (normalmente accompagnata da conflittualità reciproca) finisce di solito per travolgere in tutto o in parte, privando ora il marito, ora la moglie - o entrambi - di una buona parte delle precedenti amicizie comuni. E quanto più gli ex-coniugi sono ancora relativamente giovani, e magari senza figli, tanto più facilmente potrà innescarsi in tempo relativamente breve l’affannosa ricerca di un nuovo partner, che compensi della perdita affettiva subìta.
Meno propense a sostituire con un altro uomo il coniuge perduto sono, invece, le vedove, che di solito devono affrontare tutto il lungo processo interiore di elaborazione del lutto prima di poter eventualmente pensare di coinvolgersi affettivamente con un’altra persona. Ma sia la morte di una persona amata (coniuge o figlio, genitori, o fratelli e sorelle) sia le separazioni coniugali, o l’abbandono subìto da parte del partner, rappresentano situazioni in cui il “divieto d’amore” (e il senso di solitudine che ne deriva) insorge da una situazione esterna incontrovertibile (il venir meno della presenza della persona amata e della relazione che s’intratteneva con essa).
Si tratta cioè di tutti quei casi comunemente annoverati sotto il termine “solitudini da perdita”, sicuramente diversi tra loro per le dinamiche interiori che di volta in volta si scatenano, ma tutti contraddistinti - al pari dell’isolamento sociale o dello sradicamento dell’immigrata - dall’intervento di un fattore critico esterno, obiettivamente rilevabile. Sono pertanto distinguibili sia dai contesti in cui il senso di solitudine proviene piuttosto da un disagio interiore o dall’inadeguatezza dei rapporti affettivi esistenti, sia dai casi in cui una relazione di tipo variamente patologico viene mantenuta in essere proprio per il timore dell’alternativa (Paura di restare sola).