Solitudine, lutto e depressione
13.04.2014 00:00
Ciò che nel gergo popolare si chiama “depressione” corrisponde, a livello clinico e diagnostico, a un ventaglio di disturbi (i cosiddetti “disturbi depressivi”) che spaziano dalle forme transitorie di reazione negativa a fattori esterni più o meno destabilizzanti (perdita del lavoro, lutto, separazioni, fallimenti, ecc…), alle sintomatologie depressive indotte da sostanze (farmaci, droghe, tossine), fino alla vera e propria psicosi depressiva, caratterizzata da disturbo dell’umore (talora con allucinazioni e deliri).
Purtroppo, il progressivo uniformarsi dei criteri diagnostici della psicologia clinica a quelli presentati dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) − di cui è appena stata pubblicata anche in Italia la quinta versione (Raffaello Cortina Editore, marzo 2014) − ha fatto sì che nel campo delle depressioni sia andata ormai perdendosi la distinzione della psichiatria tradizionale tra “depressioni endogene” (senza apparenti cause esterne) e “depressioni reattive” (di risposta a fattori esterni di varia gravità), a favore di una valutazione acausale del disturbo, che si appunta quasi esclusivamente sul grado di compromissione della vita sociale e lavorativa, il numero dei sintomi e la loro durata. Questa indifferenza diagnostica alla presenza o meno di circostanze esterne scatenanti, che appare invece d’immediata rilevanza agli occhi del profano (sicuramente più capace di empatizzare con chi ha appena subito un lutto, un fallimento, o versa in condizioni di grave solitudine, rispetto a chi precipita nella malinconia senza ragioni apparenti), è approdata con l’ultima versione del DSM fino al paradosso di far quasi scomparire la distinzione finora inviolata tra lutto e depressione, se appena il quadro depressivo del lutto permane per più di due settimane (sic!) dalla morte della persona cara − vale a dire: praticamente sempre.
Senza bisogno di menzionare la valanga di critiche che si sono levate da tutte le parti su questa specifica “innovazione” del DSM-5 (e nondimeno su tutte le altre; v. Paolo Migone: Riflessioni sul DSM-5), vale la pena di soffermarsi sull’intento di fondo che ha sostenuto la rettifica, rispetto al precedente criterio di esclusione del lutto dalla diagnosi di depressione, almeno nei 6 mesi successivi al momento della perdita (e oltre 1-2 anni, perché si configurasse il cosiddetto “lutto patologico”).
Sostanzialmente potremmo parafrasare in questo mondo le intenzioni degli autori del DSM-5: “Perché costringere le persone afflitte da un lutto ad aspettare sei mesi prima di usufruire di una diagnosi di depressione che eliciti la prescrizione di quei “preziosi” farmaci antidepressivi che possono alleviare la loro sofferenza?”
In questo senso, il panorama attuale della psichiatria appare a dir poco inquietante, nella misura in cui i criteri diagnostici (il DSM costituisce ormai la “Bibbia” della diagnosi psichiatrica, a livello mondiale) sembrano sempre più asserviti agli interessi economici delle grandi multinazionali farmaceutiche. Sono infatti ormai più di 300 i disturbi psichiatrici diagnosticabili, e tali da implicare l’opportunità di qualche intervento farmacologico e/o psicoterapeutico, per la gioia delle case farmaceutiche e dei professionisti del settore. Con la già consolidata introduzione della categoria residuale del “disturbo NAS” (Non Altrimenti Specificato), i “disturbi psichiatrici” sembrano ormai ricoprire la quasi totalità delle manifestazioni della vita psichica, individuale e sociale dell’individuo.
Questa cultura della patologizzazione di ogni comportamento o vissuto che devii, anche di poco, da una presunta e inafferrabile “normalità” (cfr. quanti di noi non si riconoscono almeno in una delle oltre 300 categorie diagnostiche del DSM?) si presenta, sì, come un’accresciuta sensibilizzazione alle problematiche psicologiche, ma nella misura in cui la categorizzazione diagnostica muove sempre più da un criterio di rispondenza specifica (vera o presunta) a questo o quel farmaco, si va configurando un orizzonte dove ogni minima difficoltà della vita dovrebbe trovare soluzione in una qualche pillolina, o tutt’al più richiedere appositi percorsi psicoterapeutici.
Almeno la solitudine è finora riuscita a scampare all’incasellamento nella patologia, anche se più nell’apparenza che nella sostanza, visto il frequente manifestarsi del suo disagio mediante sintomi (depressivi, ansiosi, psicosomatici, ecc...) che già trovavano un apposito codice diagnostico nell’edizione precedente del DSM. Ora, tuttavia, nemmeno la perdita di una persona cara ci dovrebbe più autorizzare a distinguere la depressione dal lutto, almeno ogni qual volta il dolore non resti circoscritto allo specifico rimpianto per chi non c’è più, ma sconfini in un senso di vuoto affettivo e di negatività diffusa, tale da compromettere (per più di due settimane!) il tono dell’umore e la capacità di provare comunque delle emozioni positive.
Paradosso nel paradosso, a questa indiscriminata psichiatrizzazione di ogni forma di disagio corrisponde, per altro verso, una altrettanto pericolosa sottovalutazione di ogni forma di sofferenza che non risulti strettamente inquadrabile come “malattia”.
Proprio nella misura in cui l’intervento clinico trova il suo paradigma d’eccellenza nel modello medico-sanitario, e nella terapia farmacologica in particolare, assistiamo da un lato all’incessante sforzo di far rientrare quante più casistiche possibili nell’area di competenza del terapeuta e/o dello psichiatra, mentre le situazioni residuali (di cui la solitudine è un esempio) ricevono poca o nessuna considerazione, proprio per le difficoltà di trattarle secondo il corrente paradigma sanitario. Il risultato è questo: o il trattamento del problema può configurarsi come “cura” (muovendo così tutti i business medico-sanitari-farmacologici), oppure ben poche forme di supporto vengono proposte. Il concetto di prevenzione − tanto caro alla medicina, quando si tratti di predisporre screening, servizi di diagnosi precoce, o educazione a “stili salutari di vita” – resta così confinato ai margini della psicologia clinica (sulla quale scarseggiano comunque gli investimenti del nostro Welfare State), soprattutto laddove l’intervento debba intendersi come mero servizio di sostegno psicologico piuttosto che come psicoterapia, collocandosi così in quella martoriata "terra di nessuno" che, in Italia, è strenuamente contesa tra psicologi e counselor, in una "guerra di competenze" che data ormai da vent'anni.
Meno controversa, ma solo a prima vista, è la distinzione comunemente operata tra solitudine, lutto e depressione in campo psicosociale. Qui la solitudine trova una propria concettualizzazione specifica, che − sia nella ricerca empirica sia nei contributi teorici – sottolinea la sua non riducibilità alla sintomatologia clinica della depressione patologica. Questo, non solo perché la solitudine non si manifesta sempre e necessariamente con vissuti depressivi (potendo assumere anche forme ansiose, di rivalsa aggressiva verso gli altri e il mondo, o piuttosto psicosomatiche), ma perché l’occhio psicosociale è in genere meno incline alla patologizzazione dei disagi (depressione compresa), e più capace di cogliere gli aspetti “naturali” − per così dire “esistenziali” − di molte forme di sofferenza, in quanto strettamente connesse a condizioni sociali obiettive, fattori esterni scatenanti, fasi specifiche del ciclo di vita dell’individuo e della coppia, ecc…
In realtà, anche autorevoli psichiatri meno ancorati alle loro categorie diagnostiche muovono a volte in questa direzione. È il caso di un maestro della psichiatria come Eugenio Borgna (non a caso tra le voci più critiche sul DSM-5 e sulla moda di psichiatrizzare ogni forma di sofferenza: v. Giù le mani dalla psiche: ecco perché il DSM-5 sbaglia), che ha scandagliato in senso filosofico-esistenziale sia il tema della depressione (A. Bonomi, E. Borgna, Elogio della depressione, Einaudi, Torino, 2011), sia quello della solitudine (E. Borgna, La solitudine dell’anima, Feltrinelli, Milano, 2011).
Ma nemmeno l’ambito psicosociale è salvo da incongruenze. Anche qui si è soliti cercare, infatti, dei criteri di distinzione concettuale che rischiano spesso di risultare fin troppo astratti, quando non palesemente controversi. Così il vissuto di solitudine si distinguerebbe per molti autori dalla depressione solo perché il primo dovrebbe riguardare esclusivamente l’area relazionale, mentre la depressione finirebbe per contaminare - oltre alle relazioni sociali e interpersonali - anche il lavoro, la salute, la scuola. La differenza starebbe allora semplicemente nell’estensione del problema (numero delle aree di vita “intaccate”), in modo tale che tutti i “depressi” dovrebbero soffrire anche di “solitudine”, mentre non tutti i “soli” sarebbero anche “depressi”. Ma la casistica clinica non manca di profili di persone “depresse” che dichiarano di non sentirsi affatto “sole”, proprio perché la loro depressione origina, ad esempio, da vissuti di fallimento in campo scolastico o lavorativo invece che da relazioni interpersonali insoddisfacenti.
Più in generale, sarebbe forse opportuno figurarsi il “dolore dell’anima” (solitudine o depressione che vogliamo chiamarlo) come un fiume in piena che ingrossa, rompendo gli argini. Se l'esondazione raggiunge questo appezzamento di terra (relazioni sociali e interpersonali) piuttosto che quello e quell'altro (lavoro, scuola, salute), o tutti quanti, dipende dalle pendenze dei terreni, dalle loro condizioni idrogeologiche, e dal fatto che le avverse condizioni metereologiche si localizzino in un diverso tratto del corso del fiume, indipendentemente dal fatto che il fiume si chiami “Solitudine” oppure “Depressione”. Distinguere forzatamente solitudine e depressione serve agli scopi della ricerca sociale, quando si tratti di definire e circoscrivere il fenomeno indagato, ma non aiuta a comprendere quella moltitudine di casi reali che vedono spesso entrambe compresenti ed embricate. Piuttosto, nella misura in cui l’una – la solitudine – non è considerata una “malattia”, mentre l’altra sì, la distinzione serve invece molto di più a differenziare due ordini di “gravità” di un identico problema. Il fiume è magari lo stesso, e molto simili possono spesso apparire i sintomi (v. a lato: Sintomi dell’“Episodio Depressivo Maggiore” secondo il DSM-IV), ma un conto sono i danni causati dall’alluvione nel modenese o dalla storica alluvione di Firenze, e altro conto è un’esondazione circoscritta a pochi terreni di campagna quasi deserti. Non dimentichiamo, peraltro, come storiche civiltà siano sorte proprio grazie all’esondazione periodica dei fiumi che attraversavano il loro territorio (il Tigri e l’Eufrate per la civiltà mesopotamica, o il Nilo per quella egiziana), quasi a ricordarci come depressione e/o solitudine possano anche diventare a volte la spinta interiore al raggiungimento delle più alte vette della creatività artistica (arte, musica, letteratura) o della spiritualità (Madre Teresa di Calcutta).
D’altro lato, ancor più difficile è raccapezzarsi tra lutto e solitudine, e - peggio ancora - tra lutto, “solitudine da perdita” e “solitudine da mancanza”.
Per alcuni il lutto si differenzierebbe dal vissuto di solitudine, in quanto nostalgia e rimpianto individualizzati (per una persona specifica), mentre la solitudine potrebbe insorgere semmai secondariamente, come vissuto di mancanza non già di quella persona (lutto), ma della specifica relazione che si intratteneva con essa. In questo quadro, tuttavia, il concetto stesso di “solitudine da perdita” finisce per dissolversi, poiché ogni solitudine sarebbe sempre e soltanto una “solitudine da mancanza" (anche se, in caso di perdita/lutto, la mancanza si appunterebbe su una relazione specifica).
Ma è davvero sempre così?
Il senso comune distingue molto bene tra solitudine da perdita e solitudine da mancanza. Recitava, infatti, una vecchia canzone: "E non si è soli quando un altro ti ha lasciato, si è soli se qualcuno non è mai venuto" (R. Vecchioni, L'ultimo spettacolo).
Al di là di quanto sia opportuno decidere quale delle due rappresenti “la solitudine per antonomasia” (v. Notizie: "Amor mancato e amor perduto"), o del discutibile tentativo di cronometrare ciò che nella perdita verrebbe “prima” (lutto) e ciò che verrebbe “dopo” (solitudine), a chi non abbia tutto questo bisogno di spaccare il capello in quattro sembra invece evidente come ogni lutto esprima il dolore per una “perdita” (e, di conseguenza, per la successiva “mancanza”) che è congiuntamente sia perdita di una persona specifica, sia perdita della relazione affettiva che si intratteneva con essa.
In conclusione, al di là di tutte le cavillose distinzioni teoriche, ciò che comunque dovrebbe sempre restare in primo piano è la crucialità della dimensione soggettiva, che lascia alla persona stessa il diritto di decidere se e in quale misura il suo senso di solitudine (quale che ne sia la causa) costituisce soltanto l’ordinario pedaggio da pagare per il nostro soggiorno in questo mondo, o piuttosto si configura come una costellazione problematica di vita (transitoria o persistente) che merita forse un po’ più di considerazione da parte degli altri, e magari anche qualche apposito intervento di supporto.
Proprio in quest'ultima direzione muove il progetto che qui presentiamo (v. Il Percorso Guidato).
Egler Ghinato
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I sintomi della depressione patologica ("Episodio depressivo maggiore") secondo il DSM-IV:
Escludendo che i sintomi siano palesemente dovuti a una condizione medica generale o agli effetti fisiologici dell'assunzione di particolari sostanze (droghe, medicinali), per la diagnosi di "Episodio depressivo maggiore" è richiesto che:
A) cinque (o più) dei seguenti sintomi siano stati contemporaneamente presenti durante un periodo di 2 settimane, e rappresentino un cambiamento rispetto al precedente livello di funzionamento:
1. umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno;
2. marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte - o quasi tutte - le attività, per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno;
3. significativa perdita di peso senza essere a dieta, o aumento di peso, oppure diminuzione/aumento dell'appetito quasi ogni giorno;
4. insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno;
5. agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno (osservabile anche dagli altri, e non solo come sensazione soggettiva);
6. fatigabilità o mancanza di energia quasi ogni giorno;
7. sentimenti di autosvalutazione o di colpa eccessivi e/o inappropriati, quasi ogni giorno;
8. pensieri ricorrenti di morte, ricorrente ideazione suicidaria senza un piano specifico, o ideazione/tentativo di un piano specifico per commettere il suicidio.
B) che almeno uno dei cinque sintomi sia costituito da: 1) umore depresso; 2) perdita di interesse o piacere.
C) che i sintomi causino un disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento sociale, lavorativo, o di altre aree importanti.
D) che i sintomi non soddisfino i criteri dell’Episodio Misto (= sintomi dell’episodio depressivo maggiore + sintomi dell’episodio maniacale, per più di 1 settimana)
E) che i sintomi non siano meglio giustificati da Lutto: cioè che persistano per più di 2 mesi dalla perdita della persona cara, con una compromissione funzionale marcata, autosvalutazione patologica, ideazione suicidaria, sintomi psicotici o rallentamento psicomotorio.